domenica 27 luglio 2008

Una sentenza tra la vita e la morte

Come è noto, dato sia l'interesse che l'emozione suscitati dalla vicenda, la Corte d'Appello di Milano ha emesso un decreto in cui autorizza l'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione medicalmente garantiti ad Eluana Englaro al fine di causarne, gradatemente e con le assistenze farmacologiche del caso, la morte. La decisione del collegio giudicante milanese segue ad una sentenza della Corte di Cassazione con la quale si era stabilito che il giudice di merito avrebbe dovuto svolgere adeguata istruttoria per verificare se, in vita, la sfortunata ragazza avesse manifestato convintamente la volontà di non trovarsi, un giorno, costretta in un letto d'ospedale, incosciente, e condannata a quella dimensione per il resto dei suoi giorni ed in dipendenza di un qualche evento traumatico.

Non è fine di questo post, nè mia volontà, prendere posizione da un punto di vista etico su questa vicenda: troppo legata alla storia personale di ognuno, alla sensibilità particolare dei soggetti coinvolti e dei commentatori la soluzione che si può dare in merito ai dubbi ed alle questioni originate dal triste fatto, che consegna alla storia una giovane donna ridotta in stato vegetativo da un incidente.

Quello che però si vuole e per certi versi si deve fare è soltanto segnalare alcune perplessità che si originano dalle due sentenze ricordate, una della suprema magistratura di legittimità e l'altra, appunto, della Corte milanese.

Infatti, la cassazione raccomanda al giudice di merito di individuare con adeguata istruttoria quale fosse la volontà in merito della sfortunata protagonista della vicenda: ci pare, effettivamente, una forzatura. A parte che si tratta di ricostruire, con prove indirette e in assenza di documenti certamente ascrivibili ad Eluana, la volontà di una giovane in riferimento ad un evento tragico ed eventuale che avrebbe potuto colpirla nel corso degli anni successivi, quello che stride in questa sentenza della Cassazione è questo: mentre per autorizzare la cremazione di un cadavere, in caso di lite fra i suoi eredi sul ricorrere di questa volontà, il giudice deve secondo la giurisprudenza di molti tribunali italiani avere a disposizione uno scritto certamente ascrivibile al defunto in cui questi affermi di volere essere ridotto in cenere una volta morto, qui, per determinare la fine della vita di una persona ci si accontenta di una volontà ricostruita anche per mezzo di testimoni, quindi con una prova appunto indiretta e de relato. Fine della vita che arriverà per sottrazione di cibo ed acqua, quindi per fame e per sete: il che significa che Eluana impiegherà giorni a morire, nei quali il suo corpo, privo degli elementi necessari alla connettività dei tessuti, si disgregherà finchè un arresto cardiaco o un blocco polmonare non metteranno fine all'agonia. E se qualcuno ha certezze scientifiche che in tali condizioni vegetativo-permanenti non si prova dolore, le comunichi.

Ancora, la decisione della Cassazione e quella della Corte d'Appello milanese sembrano ignorare come il codice civile vieti gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una permanente diminuzione della propria capacità fisica e come il codice penale tuteli la vita al massimo grado, sanzionando persino l'omicidio del consenziente e l'istigazione al suicidio. Di fronte a queste norme è difficile una condivisione giuridica delle argomentazioni dei giudici, i quali danno un ruolo così centrale alla volontà di Eluana, peraltro nemmeno con certezza ricostruita, fino al punto da giustificare, oggi, l'interruzione della somministrazione di liquidi e, in ultima analisi, la sua morte.

Debole è l'argomento che fa capo all'accanimento terapeutico in quanto la somministrazione di acqua ed alimenti non può in alcun modo costituire terapia, ma soltanto alimentazione di un soggetto impossibilitato a farlo da sè (altrimenti, sarebbe "terapeutico" anche alimentare un neonato).

Non del tutto probante è anche l'argomento a tenore del quale si deve lasciare che la natura faccia il suo corso: mancando somministrazione di medicinali e di terapie in senso stretto, la natura è libera di fare il suo corso: a tacere del fatto che l'alimentazione della natura fa parte, senza ombra di dubbio alcuno.

Si potrebbe poi discutere per anni sullo stato  biologico attuale di Eluana, che non è di coma irreversibile, ma "vegetativo permanente", situazione su cui buona parte della letteratura medica rifiuta di assimilarlo al coma profondo e senza ritorno che è l'anticamera stessa della morte. Non è, evidentemente, nemmeno uno stato di completa morte cerebrale, dato che non mi pare se ne sia fatto cenno.

Dubbi, quindi, ed incertezze non etiche ma giuridiche non possono non rappresentarsi: il che imporrebbe una presa di posizione del legislatore perchè un giudice, sia pure umanamente sensibile e raffinato come quello che ha scritto la sentenza della Cassazione e particoalrmente esauriente come l'estensore del Decreto di Corte d'Appello, è comunque soggetto alla legge. Ed allo stato attuale, la nostra legge non autorizza in alcun modo decisioni di tipo eutanasico.

Alessandro



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